HOME | LA FAMIGLIA | LA SARTORIA | ALBERO GENEALOGICO | FOTO | ALTRO |
NOTA: Noi
parenti stretti di Gino ed Emma Ardovino, nonché curatori del presente
sito web, saremo ben lieti di aggiungere eventuale ulteriore materiale,
sia
fotografico che informativo, in possesso di coloro che abbiano avuto
contatti
con la nostra famiglia. Come
evidente, il desiderio che ci spinge non è solo quello di
tramandare il lavoro ed i sacrifici dei nostri avi a coloro che
verranno dopo
di noi, ma anche quello di arricchire il sito con
quel materiale che
al momento non è a nostra disposizione o dell’esistenza del quale non
siamo a
conoscenza. Ecco.
Il sito vorrebbe raggiungere anche chi quelle storie le ha
vissute o ne ha sentito parlare e magari deciderà di inoltrarci
informazioni,
ricordi, foto. E da oggi può farlo alla e-mail luigi@ardovino.it Nelle
intenzioni di noi che lo abbiamo realizzato e per sua stessa
natura, questo sito non rappresenta una testata giornalistica in quanto
viene
aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un
prodotto
editoriale ai sensi della legge n° 62 del 07.03.2001. Molto
del materiale visibile è tratto da internet e quindi
considerato di pubblico dominio. Nel caso in cui la pubblicazione
violasse
eventuali diritti d’autore, vogliate comunicarcelo alla e-mail luigi@ardovino.it
Verrà immediatamente
rimosso. Gli
autori del sito non sono responsabili: -delle
pagine web collegate tramite link
-del
loro contenuto che può essere soggetto a variazioni nel
tempo. Tutti i diritti sono
riservati La storia della
famiglia Ardovino contenuta in questo sito si basa
su un memoriale manoscritto autografo di Emma Ardovino che porta la
data del 29
maggio 1980, integrato con ricordi verbali provenienti da Florica
Ardovino e da
tutti i cugini, in particolare Adriana e Luigi. A tali informazioni
personali si aggiungono informazioni provenienti
dal web. Ci
è sembrato giusto, infine, scegliere di non diffondere alcuni
“attimi di vita privata” perchè abbiamo desiderato che rimanessero per
sempre
soltanto nostri. Ecco perché qui e là nel sito troverete dei puntini di
sospensione. NB. Le parti del memoriale di Emma Ardovino sono redatte in carattere corsivo a differenza dei contributi provenienti da altri membri della famiglia LA
FAMIGLIA ARDOVINO (versione agosto
2021)
Mia madre Lucia
venne alla luce a
Castel Gandolfo nel palazzo papale, il 4
settembre
1873 da Maddalena Pasquini, una bellissima ragazza e da
Pietro
Pellegrini più anziano di circa 27 anni. Era una guardia del Papa e
custode del
lago. Quando si sposarono lei aveva 17 anni. Il loro matrimonio duro'
un
ventennio. Foto
di
Maddalena Pasquini Nacquero 5
figli. Lucio, Luisa,
Lucia, Maria e Andrea. Quest'ultimo mori' giovane a soli 30 anni di
sifilide.
Il primogenito, terminato il servizio di leva, si trasferi' a Roma. Per
mezzo
di un loro zio, rettore dell'università, fu assunto come usciere.[1],
Quell'anno (1888),
mori' il padre, cosi' la giovane vedova
rimase con cinque figli. Lasciarono, anzi dovettero lasciare il paese e
venire
a Roma. Le ragazze seguitarono a lavorare da sarte e riuscirono ad
andare
avanti. Si sposo' il primo figlio, poi Luisa con un conte decaduto
(Vierani).
Ebbero due figli Viviano e Ulderico. Dopo tre anni mori' il marito.
Luisa
torno' in casa materna, maggiori difficoltà, incomprensioni e malumori.
Dopo
qualche anno Luisa si risposo' con un ingegnere, ando' via ma non era
migliorato niente perchè il patrigno non sopportava i piccoli cosi'
nonna e zie
dovevano pensarci. Mia madre lavorava moltissimo, la sorella Maria ne aveva poca
voglia. Il marito Gigi
faceva l’infermiere. Vivevano a Roma dalle parti di via Catania. Quando
Luigi
Ciarlo era piccolo ed abitava in via Berengario andava a piedi da loro
e Gigi
gli faceva le iniezioni di calcio. Mamma Lucia Ciarlo diceva che
facevano bene
!!!. Si puo' dire che il peso della famiglia l'avesse solo
mia madre. Aveva
una cliente assidua, un giorno le chiese se avesse voluto sposarsi. Si
sarebbe
liberata di tante angustie. Conosceva un buon giovane[2], avrebbe
viaggiato, visto il mondo, sarebbe
stata felice. Si incontrarono ma a mia madre non piacque. Lui faceva il
guardarobiere in una compagnia di operette, vita non stabile ma
variabile. Lui
per il rifiuto si getto' dalla finestra ma l'altezza era minima e si
ruppe solo
il braccio sinistro. Informata, sempre dalla suddetta signora, mia
madre ando'
con lei in ospedale a trovarlo tanto per augurargli una pronta
guarigione,
tornando nel discorso, accetto' la proposta di matrimonio credendo che
poi
l'avrebbe lasciato. Non fu cosi' perchè dopo un anno si sposarono,
cioe' il 1° dicembre 1901.
Una notte
Pasquale andò a trovare
Lucia a Castel Gandolfo e scapparono insieme. La famiglia non li volle
più
vedere. Non fu un
matrimonio felice, Lei
seguito' a lavorare senza concedersi uno svago. Lui con pochi
sentimenti, gli
piaceva bere,
spesso tornava a casa ubriaco
o alle piccole ore, dicendo che stava con gli amici. Nacqui il 24
novembre 1902[3]
a Roma in via dello Statuto, il mio nome fu dato dalle comari di
battesimo.
Emma era la moglie di un amico della compagnia, mi regalò un paio di orecchini e 2
perle (50 lire li pagò), molto per quel tempo. Per ragioni di lavoro mia
madre dovette affidarmi ad
una balia, moglie di uno spazzino. Prima di lasciarmi si raccomandò di
farmi
prendere ogni giorno molta aria, farmi il bagno e altro ancora.
Infatti, questa
abitava al piano terreno e pensò bene di tenermi nella carrozzella
fuori al
cortile con il relativo bagnato, farmi il bagno magari dopo la poppata
ecc. In
breve tempo mi venne la nefrite, venne mia madre a trovarmi, mi trovò
in gravi
condizioni. Con cure riuscirono a salvarmi, ma, da allora, non stetti
più bene,
bronchiti asmatiche che mi davano brevi soste di miglioramenti, tutte
le
malattie cui in genere i bambini andavano soggetti l’ebbi io, perciò
una volta,
da bambina, più letto che svaghi. Ebbi occasione di viaggiare con i
miei, molti
cari ricordi, per esempio quindici giorni prima che il terremoto
distruggesse
Messina[4], noi
stavamo là, io giocavo con
una bambina della mia età, il maggiore divertimento era di nasconderci,
io
trovavo giusto andare dove si teneva il carbone, allora con questo si
cucinava,
perciò, sotto i fornelli mi coricavo, di conseguenza mi sporcavo, però
mia
mamma pazientemente mi cambiava, mi lavava con la raccomandazione di
non farlo
più. Ancora prima di tale data stavo per un periodo di tempo con mia
nonna e
una zia, sorella di mamma, mi tenevano a letto il più possibile per
timore che
l’aria mi facesse male, mi divertivo con il ritagliare dei giornali
facendo
delle forme più impensate, avrò avuto circa 5 anni[5], una mattina
pensai bene di tagliarmi i capelli,
avevo molti boccoli, in pochi minuti cambiai fisionomia. Lo sgomento di
mia
nonna fu forte, tanto più che presto mia mamma sarebbe tornata
dall’America e
non sarebbe stata contenta della mia decisione. Avevo una bambola che
mia zia
Maria aveva confezionato con delle pezze di stoffa riempita con
segatura, per
me era bella, avevo il desiderio di farle da infermiera così tutti gli
aghi che
trovavo nel cuscinetto di lavoro della nonna Maddalena sparivano, le
facevo le
iniezioni e gli aghi rimanevano nella segatura. Inesplicabile la
sparizione
dell’arnese
di
cucito, io seguitavo nel mio compito senza dire niente. Arrivarono i
miei
genitori, mi portarono una bellissima bambola con il viso di
porcellana,
lasciai la prima e dissi loro, gli aghi li troverete dentro la bambola.
Sempre
in quel periodo giocavo con un bambino, dove abitavamo era una
villetta, una
decina di gradini minimo per arrivare all’ingresso, un giorno il
piccolo mi
tirò i capelli, io indispettita, gli diedi uno spintone e lo feci
ruzzolare per
tutte le scale: dalle urla di questo giunsero i miei, io pronta dissi
che “lo
dicevo che cacavi (cascavi)”. Ricordo come ora questi piccoli episodi e
avevo
cinque
anni. I miei decisero
di prendermi con loro
e iniziai a viaggiare. Ci imbarcammo a Genova sul piroscafo “Tomaso di Savoia” già da allora
non troppo pratico per
attraversare gli oceani. Foto
del
transatlantico Tomaso di Savoia Il
piroscafo Tomaso di
Savoia fu costruito nel 1907 nei cantieri Barclay,
Curle &
Co. di Glasgow per conto del Lloyd
Sabaudo di Genova. Poteva
ospitare 150 passeggeri di prima classe e 1.700 di terza classe. Fu
immesso
sulle rotte Genova - New York e Genova - Sud America. Feci amicizia
con una bambina della
mia età, molto vivace. Un mattino iniziammo a rincorrerci intorno
all’esterno
della sala da pranzo. Lei percorreva due giri io non ne avevo terminato
uno,
dopo un po’ non la vidi più. Andai da mia mamma chiedendo della
piccola.
Iniziarono le ricerche invano. Il piroscafo fu fermato pensando ad una
disgrazia. Tornarono indietro ma del corpicino non si seppe più niente.
Certamente deve essere caduta in mare senza che nessuno se ne
avvedesse.
Ricordo ancora le urla disperate della madre. Arrivò in America sola,
il marito
lo aspettava con la bambina. Nei primi anni
del ‘900 Pasquale e
Lucia, lavoravano al seguito delle compagnie teatrali di opere e
operette per
far conoscere “il bel canto” in giro per l’Italia e all’estero, in
particolare
in Sud America (Brasile, Uruguay, Argentina, Cile) e Giappone. Le date dei
viaggi all’estero sono
incerte. Oltre alla traversata a bordo del Tomaso di Savoia descritta
da Emma
nel suo memoriale; esiste una foto che ritrae Emma a Valparaiso nel
1905. Foto
di
Emma a Valparaiso nel 1905 Inoltre,
il sito del Centro Internazionale Studi Emigrazione Italiana riporta un
viaggio
effettuato da Pasquale Ardovino, registrato come artista, di 26 anni
d’età, a
bordo della nave Bologna, con partenza da Genova ed arrivo a Buenos
Aires il
14/9/1906. Emma ricorda che in
uno di questi viaggi incontrarono Giacomo
Puccini. Probabilmente si trattava della traversata del 1905, quando
Emma aveva
solo tre anni, inquanto quello fu l’unico anno in cui il compositore di
Lucca
si reco’ in Sud America, precisamente a Buenos Aires.
Un
ulteriore viaggio oltre oceano avvenne nel 1909. I costumi realizzati
da
Pasquale Ardovino vennero utilizzati in 5 operette rappresentate ai
Teatri
Solis di Montevideo e San Pedro di Porto Alegre. Come
si leggerà piu’ avanti nel memoriale di Emma, in questo periodo avvenne
un
ulteriore viaggio in Sud America nel 1913. Emma
raccontava di aver visto il pan de sucre, quindi uno di questi viaggi
ebbe come
tappa il Brasile. Raccontava
inoltre che
in ogni città che andavano lei prendeva il tram da capolinea a
capolinea per
non sbagliarsi a scendere alle fermate, non conoscendo la lingua per
chiedere
indicazioni, memorizzando dei posti particolari per ricordare la strada
di
casa. Emma ha passato periodi in cui circolava nel mondo la febbre
gialla, il
colera, la peste nera ecc. senza mai ammalarsi. Era sicura che questo
cambio di
paesi l'avesse protetta. Pasquale
a volte arrotondava facendo contrabbando di pellicce e vestiti. Per non
pagare
la dogana, quando si recava in America faceva indossare i capi di
vestiario
alle ballerine. Dei
viaggi in Giappone esistono due testimonianze. Uno effettuato con
Pasquale
ancora in vita il quale, si racconta, andasse nei templi giapponesi per
rubare
la frutta che i fedeli offrivano ai propri santi come noi offriamo i
fiori; un
giorno i giapponesi se ne accorsero e non misero più niente sugli
altari. Da
quel viaggio Pasquale porto’ indietro due grandi conchiglie che
conserva ancora
Adriana. Un
secondo all’inizio degli anni ’50, dal quale Gino riporto’ indietro un
kimono
azzurro di seta purissima, probabilmente utilizzato per una
rappresentazione
della Madama Buttefly, da cui ricavo’ due pigiamini per le nipoti
Adriana e
Maria Olga. Foto
del
banchetto in Giappone Quello
che accadeva nella classe dove viaggiava il personale addetto alla mano
d'opera
è tutto da ridere. I giorni di navigazione erano molti, ci si annoiava,
così
qualcuno sbagliava cabina. Vicino alla cabina degli Ardovino c'era una
signora
che sbagliava cabina parecchie volte. Quando tornava il marito, lei
diceva di
amare solo lui. Nonostante cio’il consorte la riempiva di botte. Quando
Emma
usciva per vedere se la poveretta fosse morta, la vedeva subito
riprendersi e
cantare "o come son felice felice felice, il cuore me lo dice che
felice
io sarò". Emma cosi’ rincuorata rientrava in cabina. La signora non era
morta e aveva qualche soldo in più.
Andammo a Belo
Horizonte una
cittadina da pochi anni costruita, poche case a volte baracche, a tutta
la
compagnia assegnavano quest’ultime, mia mamma aveva paura di stare la
sera da
sola con me in mezzo a quei negri mezzi selvaggi, mio padre si ritirava
sempre
alle ore piccole, dichiarando le solite scuse, un mattino esasperata
senza
chiedergli spiegazioni, prese la paglietta che aveva in testa il
marito, gliela
fece arrivare come colletto, forse ci sarebbe stato di peggio se la
scena non
si fosse manifestata molto buffa e finì lì. Altre notti passarono, mio
padre
dava colpa all’orologio che non andava bene, volendo eliminare il
colpevole mia
nonna prese l’orologio e lo sbattè più volte sul comodino andando in
mille
pezzi. Topi, pipistrelli, formiche, scarafaggi erano di casa; una
mattina papà
andò per infilarsi la canottiera e un serpentello che sta avvolto nella
suddetta, si rifugiò in una parte del corpo un po’ intima. Urla di
spavento e
immobile dalla paura accorsero molti componenti della compagnia che
stavano
nelle altre baracche, credendo si trattasse di qualche assalto di
tribù, per
fortuna fu liberato e tutto tornò normale. Quando stava per
nascere mia sorella
Ivonne, mio padre stava in America, mamma già sapeva che il marito da 5
anni
aveva una relazione con una ballerina. Si chiamava (omissis),
da lei ebbe una figlia che morì
dopo poco, gli scrisse chiedendo come volesse chiamare il nuovo
nascituro. Lui
rispose: Argentina o Italo se era maschio. Argentina era il nome della
bambina
che aveva perduto. Non dico gli improperi di mia madre, l’indomani
scese di
casa con l’intento di mettere il nome della figlia con il primo che
avrebbe
sentito. Sentì Ivonne. Ritornato in Italia, papà, le liti non mancarono
e
volavano piatti, io crescevo impaurita, inconsapevole di chi avesse
ragione.
Volevo molto bene a papà e perciò ero dalla sua parte, cercavo di
consolarlo da
tutta l’ira di mamma. che aveva incaricato una persona di informarla
sul
marito, e da questa seppe tutto. A Buenos Aires
abitavamo in una
pensione con giardino e giochi per piccoli. Per me era sempre il
problema della
bronchite asmatica, non potevo correre, sudare, prendere troppo freddo.
I miei
decisero di farmi operare di tonsille da uno specialista della gola.
Infatti,
una mattina indossai un vestitino rosso e fui operata. In breve tempo
tornata a
casa trovai un piccolo capretto nel giardino, l’aveva comprato papà per
farmi distrarre.
Ne fui assai contenta e per un po’ di giorni mi fece molta compagnia,
poi come
usavano là, il capretto fu macellato dal macellaio e cotto per la
nostra
tavola. Quel vestito rosso non volli più indossarlo, credevo mi avrebbe
riportata dal dottore. Secondo viaggio.
San Paolo, mio papà
si occupava della spesa era un buongustaio, ogni volta che si imbarcava
si
portava dall’Italia pasta e roba che sapeva di non trovare. Di carne ve ne
era in abbondanza.
Ricordo che a mezzogiorno si sentiva un odore di carne ai ferri. Erano
gli
operai che terminavano di lavorare, accendevano un fuoco in un angolo
della
strada e arrostivano delle bistecche di grosse proporzioni. Era il loro
pasto
con del pane. Andando al mercato un giorno (papà)
incontrò un ragazzetto negro, poteva avere
12 o 13 anni. Questo si offerse di aiutarlo a portare i pacchi a casa,
infatti
così fu. Ciò si ripetè diverse volte fino a quando io chiesi a papà se
poteva
restare a pranzo con noi. Per quel piccolo era la prima volta che
sedeva a tavola,
la famiglia era numerosa e poverissima, si chiamava Carlo Campos. Si
affezionò
a noi e chiese se lo tenevamo per sempre. Papà andò dai suoi genitori e
con il
loro consenso, partì con noi per Rio de Janeiro. Si mostrò molto utile
per la
casa, specie per me. Capitammo al carnevale di Rio con un po’ di
confusione.
Qualcosa mi è rimasto nella mia mente, proseguimmo per il ritorno in
Italia. Allora nel
piroscafo c’era la prima
classe, la seconda e la terza, povera gente erano trattati da
emigranti. Da noi
nel pomeriggio servivano il the con i biscotti, a loro no. Io con il
negretto,
senza farci accorgere radunavamo i biscotti che rimanevano nelle
numerose
portate e li portavamo per i bambini. Sembravano stessero in gabbia
perché
proprio una gabbia ci divideva e io ero contenta di renderli felici.
Approdammo
a Barcellona. Ci fermammo per mezza giornata... Il tenore di vita
sempre uguale. Si
arrivava in una città per un mese, quindici giorni, a volte meno. I
miei, molte
ore del giorno fuori casa per lavoro. ... Una seconda volta dovemmo
tornare in Argentina, non
ricordo per quale ragione tardammo la partenza di pochi giorni, il
piroscafo
che si sarebbe dovuto prendere, affondò[6],
il nostro Angelo Custode per la seconda volta ci salvò, prima dal
terremoto di
Messina poi dal naufragio.
Io ormai potevo
fare le faccende di
casa, consisteva nell’ ordinare l’unica stanza e cucinare. Mia madre
era molto
severa, non voleva che parlassi con nessuno. Non era certo una rosea
infanzia
tanto più che spesso stavo male. Una nostra conoscente iniziò ad
insegnarmi a
leggere e a scrivere, viaggiava con noi, perciò non fu difficile
seguirmi. A me
piaceva molto studiare. Le materie preferite erano l’italiano, la
storia e il
disegno. Nel 1910 mia madre volle fermarsi a Roma anche per farmi
seguitare gli
studi. Abitavamo in Via del Tritone 87 di fronte dove ora c’è il
Messaggero.
(c’era una piccola chiesa, ora non c’è). Allora vi era un grande albergo[7].
Mio padre avrebbe dovuto aprire un cinematografo e un bar ma lo
sconsigliarono
dicendo che il cinema non sarebbe andato avanti, perciò noi rimanemmo a
Roma e
lui riprese a viaggiare. Riuscii
a
terminare la terza classe. La scuola era in Via Nazionale, credo la
Margherita
di Savoia, ancora esiste. La quarta rimase a metà perché nuovamente
facemmo i
bagagli per seguire papà. ... Dovevamo poi ritornare in America.
Stavamo a
Firenze quando mamma rimase incinta, perciò altro cambiamento, ritorno
a Roma,
questa volta a casa di zia Maria e papà salpò l’oceano (1913). ... A Roma ebbi
nuovamente la nefrite, questa volta molto
forte. Ricordo il sabato Santo, mi sognai che ero morta e vidi i miei
funerali.
Raccontai a mia madre tale sogno e sapendo della mia gravità non si
trattenne
da un dirotto pianto. In giornata altra sorpresa. Divenni signorina.
Questo
fatto, come per incanto mi fece migliorare, guarii e da allora non fui
più
malata. In luglio andai in villeggiatura con zia Maria e marito a Cupra
Marittima
nelle Marche. Dovevo respirare aria di mare, non stare al sole perciò
ben
coperta. ....
Percorso del
tram: via del Tritone,
via del Lavatore, Fontana di Trevi, via Nazionale. La prima volta che
salii su
un auto pubblica fu un grande avvenimento, ci accompagnò mio zio
Vincenzo,
marito di Luisa e una sua figlia Lidia, malata di epilessia, questa
morì a 20
anni di un forte attacco, era bellissima, altri due fratelli gli
morirono alla
stessa età, Viviano nel 1911 a (illegibile)
in guerra in Libia
come già ho scritto e Ulderico nel 1912 di meningite. La mia maestra
delle elementari si
chiamava Luisa Allegretti, era alta, magra anziana, molto buona e mi
voleva
bene, noi la criticavamo per come vestiva, si cambiava solo ad ogni
stagione
inoltre questi avevano una decina di anni perciò fuori moda. L’inverno
si
riscaldava le mani con uno scaldino che la bidella le preparava, in
classe
c’era una stufetta a carbone. Ricordo qualche nome, la mia compagna di
banco si
chiamava Altieri, davanti avevo Milena Compagnano e Milena Mileni
queste due
erano le prime della classe, a volte mi aiutavano in aritmetica, a me
non
andava di risolvere i problemi. Un’altra
compagna di nome Arduini, era la più vivace. Doveva spesso richiamarla
o
metterla in castigo dietro la lavagna, ogni volta che sentivo chiamarla
credevo
che la maestra si rivolgesse a me, era poca la differenza, io non sono
mai
stata castigata. Papà in quel periodo andò in Tunisia, al ritorno mi
portò un
casco coloniale, volle che l’indossassi. Le mie compagne trovarono un
motivo
per schernirmi, naturalmente riuscii a convincere papà a non uscire più
con il
casco. Non mancò la
terza grazia: In via del
Tritone, dove avevamo abitato, un mese dopo, leggemmo sui giornali che
una
parte del palazzo venne investita da un’ala di una vicina costruzione,
che si
riversò sul piano della nostra casa dove c’erano la cucina e la sala da
pranzo,
non ci furono vittime ma molto spavento[8]. Foto
del
crollo del palazzo di via del Tritone Ritornando al
secondo viaggio in
Brasile, allora morirono centinaia di persone di vaiolo nero, colpiva
in poche
ore e sempre in cerca di bambini. A Rio avevo una bambina per giocare,
un
pomeriggio dopo essere stata diverse ore insieme, mi salutò e andò via,
abitava
al piano inferiore al nostro, la mattina era già morta colpita dal
male, non
mancava la febbre gialla che continuava nella mortalità. Il buon Dio ci
ha
sempre aiutato. Dovevamo andare nelle Ande; con la nostra compagnia, il
tenore
era malato di polmoni (tisi) man mano che salivamo si sentiva male,
l’aria fine
non gli giovava e prima di arrivare sboccò tanto sangue, dopo pochi
giorni
morì. Il
9 settembre[9]
1913 venne al mondo,
al Policlinico, mia sorella[10],
molto carina, mi sembrava una bambola mia madre tutte le attenzioni le
aveva
per lei di questo ne rimasi mortificata passai in seconda linea. Per
mancanza di poterla allattare si dovette prendere una balia attraverso
l’agenzia in casa una bellissima paesana di Olevano Romano 21 anni,
allora
ancora usavano indossare i costumi del loro paese una gonna molto larga
con una
fascia in basso trasversale colori vivaci un busto che (illeggibile) una
camicetta bianca in testa un fazzoletto tipo turbante con due spilloni
d’oro o
d’argento. Per la
nostra casa fu un
disastro, 40 lire al mese di stipendio due doppie mensilità (tenete
conto che
un impiegato poteva guadagnare dalle 70 alle 90 al mese) il comodo
vestiario, 6
di tutto, iniziando dalla biancheria ai vestiti. In questo periodo
abitavamo in
P.Vittorio (sotto i portici). C‘era poi il mercato. Nonna andava a fare
la
spesa con 2 lire (e portava il resto) le uova costavano 10, 1 paolo=50
cent, la pasta 50
cent.
30 carciofi 1 paolo. La balia
non intendeva lavarsi giornalmente, il bidè lo ignorava, disse che al
suo paese
solo quando nascevano i figli ci pensava la levatrice
poi finì per convincersi....Le nostre passeggiate
consistevano da P. Vittorio alla stazione, là si riunivano la maggior
parte
delle balie, arrivavano persone dai loro paesi così sapevano notizie.
...intanto le uscite finanziarie aumentavano anche
perché si erano forniti di vestiario; in un secondo tempo si facevano
dare
l’equivalente in denaro. Riprendemmo a viaggiare, a me non piaceva
affatto,
avrei voluto una casa, giocare con le altre della mia età invece
iniziai a
occuparmi di mia sorella, mia mamma fuori a lavorare (la compagnia dove
lavoravano era la “Città di Milano”) io per la piccola e i lavori
domestici.
Capitammo a Salerno, avrò avuto 12 anni, i padroni di casa, due
coniugi, la
sera facevano venire amici per giocare a carte tra i quali un prete, io
qualche
volta mi intrattenevo per seguire il gioco poi alle 21 a letto. La
signora
sentì parlare di me dal prete che avrebbe voluto portarmi via.
Giustamente
spaventata avvertii mia madre e l’indomani andammo via alloggiando in
un
albergo. Cittadine, città, sempre in viaggio, arrivammo a Milano. La
famiglia Ardovino abito’ prima in Via Vittorio Veneto e poi all’ultimo
piano di
un appartamento in Via San Paolo 1, a due passi dal Duomo, talmente
ampio che
alcune stanze venivano affittate ad attori e cantanti di passaggio
intercettati
dallo stesso Pasquale al loro arrivo alla stazione Centrale. E’ in
questo
periodo che la sartoria Ardovino stabilisce la propria sede stabile a
Milano in
Via Savona 9 e in Via Valparaiso 35. Anche se nel memoriale di Emma non
se ne
fa mai cenno, i suoi suoceri, Giuseppe ed Emilia, risultano essere
intestatari dei
due locali e quindi in qualche modo coinvolti nell’attività sartoriale. Era passato un
anno (1915), un
pomeriggio verso le 15, si pranzava a quell’ora, suonò il campanello
della
porta di ingresso, io avevo una pentola in mano, avevo cucinato pasta e
patate,
aprii e mi vidi davanti un bel giovane (in pantalone di lana bianca e
giacca
blù. La prima volta che portava pantaloni lunghi, prima portava la
zuava o
pantaloni al ginocchio) domandò di mio padre e si presentò per il
nipote Luigi.
Suo padre
Giuseppe o Peppino
Ardovino, era fratello di Pasquale e pare che avesse lavorato come
sarto al
teatro dell’opera Colon di Buenos Aires che fu inaugurato il 25 maggio
1908 con l'Aida di Giuseppe
Verdi.
I genitori di
Gino, napoletani doc,
vivevano nel quartiere più malfamato
di
Napoli. Quando Emma aveva i figli, ogni volta li portava a conoscere i
suoceri,
prima entrava in casa lei con un grande contenitore di varechina che
spargeva
nella casa, dietro di lei veniva la suocera che urlava " ueee è arrivata
a signora ". Emma presentava il
neonato e ripartiva. Noi non lo
conoscevamo e dopo qualche
ora andò via chiedendo di poterci venire a trovare ancora . Il secondo
giorno
venne più tardi, quando i miei non stavano in casa, parlammo del più e
del meno,
poi mi dichiarò che gli piacevo tanto che mi avrebbe a suo tempo
sposata, senza
perdere tempo, voleva un bacio, io per risposta gli diedi uno schiaffo
ammonendolo di non azzardarsi più di avere tali intenzioni, conoscemmo
gli
altri cugini e zii, dopo un mese partimmo. Ci venne a trovare nelle
città, che
andavamo, naturalmente i miei capirono lo scopo e mi si dichiarò per il
fidanzamento, a me non piaceva, veniva sempre all’assalto per quel
primo bacio
ma riuscivo ogni volta a scansarmi, ci fu una corrispondenza quasi
inutile, lui
non scriveva bene, io ero tutta poesia, idealismo, lui andava alla
conclusione
passarono così altri due anni, tornammo a Milano d’inverno. Una
domenica fui
invitata a casa sua, questa volta senza mia sorella, perché ancora non
l’ho
scritto ma Ivonne era la mia guardia del corpo, non mi lasciava mai,
ordine di
mia madre. Prendemmo il tram, era già scuro, c’era una nebbia da far
spavento,
io quasi impaurita mi avvicinai più del solito a lui con la speranza di
arrivare presto. Fu in quell’occasione che mi prese e mi baciò. Non
ebbi tempo
di liberarmi erano due anni che aspettava. Gli dissi che non avrebbe
dovuto ad
ogni modo se ne sarebbe parlato dopo sposati, non fu così, incominciai
a
volergli bene anche perché vedevo che lui me ne voleva; si parlò
dell’avvenire
di una casa mia, il mio sogno si sarebbe avverato, avevo solo 15 anni,
lui 17. ...Contrari
erano anche i miei ma io ero stanca della vita che
conducevo, sempre in case estranee, rischi per le occasioni che mi
capitavano,
specie durante la guerra del 15-18, non si trovavano alloggi, dovevamo
accasarci dove si poteva, la compagnia recitava maggiormente in zona di
guerra,
vi erano maggiori incassi, le truppe venivano cambiate dal fronte ogni
6 mesi,
quando potevano avere un po’ di sosta si divertivano al massimo, il
teatro era
molto frequentato.
Quando ci fu la
ritirata di Caporetto[11]
stavamo a Schio, si vedevano trainare dei camion pieni di feriti,
sembravano
trasportassero inutili bestie addossati uno con l’altro, fasciati alla
meglio,
sporchi, con i volti spaventati non avevano niente di umano, anche le
loro
grida e lamenti per le ferite riportate erano bestiali, eppure quando
qualcuno
di questi riusciva a guarire riprendevano a vivere, si divertivano in
ogni
modo, una breve licenza a casa poi nuovamente al fronte. La prima
guerra
mondiale non fu per la popolazione un gran sacrificio, poche
restrizioni e, per
alcuni, ricchezze, i fornitori di armi e tutto il ramo rifornimento
guerra, li
chiamavano: i pescicani. A Trieste per la prima volta dopo il termine
della I.
guerra mondiale doveva venire il nostro Re Vittorio Emanuele III io ero
devota
ai Savoia, volevo andare con una conoscente a vedere l’arrivo, mia
mamma non
intendeva perdessi tempo per certe sciocchezze (diceva) ma alla fine
riuscii ad
andare via. Un’altra volta sempre a Trieste Ivonne giocava con il
gattino della
portiera, questo dava fastidio a mia madre ad un tratto prese quella
povera
bestia e la buttò dalla finestra. Venne su la padrona del gatto non
dico quale
questione avvenne per fortuna non si fece molto male. A me piaceva
leggere
lavorare ad uncinetto, dovevo appagare i miei desideri di nascosto alla
sua
presenza non era possibile, volevo imparare a lavorare la maglia con i
ferri,
comprai l’occorrente e mi confezionai un bel vestito, viola che allora
era
l’ultima moda. ... Nel 1917 in
autunno capitammo a
Torino, vicino dove noi abitavamo c’era un convento di suore,
indossavano una
divisa grigio chiaro, chiesi loro che desideravo fare la prima
Comunione e
Cresima, in breve mi prepararono, mia mamma mi confezionò un vestito di
lana
bianca, in testa un cappello di pelle blu. Mio padre al giorno
stabilito non
volle venire, andai solo con mia madre, senza aver pensato che ci
voleva almeno
la madrina, le suore rimediarono con una loro inserviente, mi tolsero
il
cappello e mi prestarono un velo bianco. Doveva essere una festa per
me, invece
ricordo una grande tristezza, però ero contenta di aver fatto un mio
dovere
religioso. Non ricordo di averlo già scritto ma tra le cose che mi
erano
vietate era quello di non andare la Domenica in Chiesa, dicevano i miei
che si
poteva pregare in casa senza perdere il tempo. Vicino al mio letto mi
ero
formata una specie di altare con vari santi il Crocifisso e là pregavo. Percorremmo
altre città, arrivammo a
Palermo, là conobbi uno studente che abitava nella medesima casa – era
il 5
maggio 1919 si chiamava Pietro. Malgrado sapesse che ero fidanzata
ugualmente
si dichiarò per un eventuale ripensamento del primo, mi piaceva era
molto
rispettoso, serio, mi sentii di volergli bene, ma non potevo tenerne
due. ... Nel 1920 decisi
di sposarmi appena mi
sarebbe stato possibile lo dissi a mia madre, lei non approvò la mia
scelta, ma
non si oppose, però da parte sua non mi avrebbe dato neppure un
fazzoletto come
corredo, se Gino accettava tanto meglio. Le chiesi se mi avrebbe presa
come
lavorante in sartoria, parlò con l’impresario e fui assunta, con una
paga
giornaliera di L. 10[12],
una bella cifra se si calcola che un impiegato guadagnava dalle 100
alle 200
mensili. Con il mio stipendio mi sarei fatto il necessario di
biancheria, così
fu. Dovevo però ugualmente pensare alla casa, a mia sorella e tutto
come prima,
ci riuscivo, la mattina presto mi preparavo il programma della
giornata, alle 9
stavo al lavoro fino alle 15, mio padre era addetto alla spesa, io di
corsa a
casa, quasi sempre dovevo cucinare con il carbone, difficilmente nelle
varie
città c’era il gas, né il frigorifero, perciò si doveva cucinare al
momento,
mio padre era molto esigente nel mangiare non ammetteva sbagli, però si
accontentava della mia cucina. I miei dopo il pranzo si riposavano un
po’ il tempo
che io lavassi i piatti dopo mamma riprendeva il lavoro straordinario,
confezionava vestiti per diverse componenti della compagnia, tagliava,
preparava ed io l’aiutavo per terminarli, alle 20 mamma e papà
tornavano al
teatro per la recita, all’1 erano di ritorno. Dopo due anni avevo un
discreto
gruzzoletto, con questo mi feci un modesto corredo, ma Gino non aveva
mai
preteso nè voluto discutere in proposito, come già credo di aver
scritto pensò
lui a comprare il mobilio necessario ed il 29 luglio 1922 iniziò una
nuova fase
della mia vita… Tra contrasti e
riconciliazioni
arrivammo a luglio 1922. Gino a Milano aveva preso in affitto una
camera e
cucina. Ai mobili pensò tutto lui, io denari non ne avevo. Il 29 di
quel mese a
Firenze ci sposammo, iniziammo il viaggio di nozze, la prima notte
rimandiamola, gli invitati erano 31, il pranzo e l’auto costarono 2000
lire. Pasquale,
Emma, Lucia e Gino nel giorno del matrimonio di Emma e Gino La mattina
quando arrivammo davanti
la Chiesa di S.Maria in Fiore, su una gradinata c’era ad aspettare una
donna
che io conoscevo e sapevo che era stata l’amica del mio prossimo marito[13], feci
un passo indietro come non
volessi più avanzare per quel famoso sì, ma lui per un braccio mi portò
all’altare, il primo cruccio per tale genere. Dunque dopo Firenze, Roma
in casa
di zia Luisa, lei stava a Frascati in villeggiatura con i figli.
Rimanemmo
bloccati per due giorni causa scioperi dei ferrovieri, finalmente
potemmo
partire per andare dalla zia a Frascati. Lì fu la prima volta che si
ubriacò.
Albergo vicino la Chiesa di S. Francesco[14].
In seguito Montecatini dai miei, poi ad Inverigo (Lombardia) dai
suoceri (un
mese di luna di miele) ad agosto finalmente a Milano a casa mia. Non
rimasi
entusiasta però mi sentivo tanto felice che non desideravo altro per il
momento. Della casa – di 1 stanza! Si era rimediata la cucina, il bagno
era
fuori e l’acqua bisognava prenderla fuori. Ad ottobre vennero i miei,
avrebbero
fra poco deciso di non viaggiare più perciò volevano un grande alloggio
dove
stare noi tutti ed affittare ad artisti. In viale Vittorio Veneto
trovammo
quanto ci necessitava; loro però partirono e lasciarono a me e Ivonne
tutta la
responsabilità della pensione. Iniziarono i primi guai dopo il
matrimonio addio
felicità, addio tempo libero, mio marito riprese la sua vita galante ed
io con
i pensieri e molto lavoro. Nell’ottobre del 1923 nacque la prima figlia
Florica. Le misi il nome di un’artista rumena che era stata tanto
fortunata[15].
... Nel 1924 mio
marito ebbe una
scrittura per andare come costumista in America 12 Pezas giornalieri
pari a L.
120, un buon contratto; partimmo con la bambina. Foto
della
famiglia Ardovino a Rio de Janeiro Durante il
viaggio, della durata di
40 giorni, Emma confeziono’ 40 vestitini, uno al giorno, per la piccola
Florica. ...
Rifacemmo le valigie per far ritorno in Italia, i
rapporti fra noi erano più che mai tesi; decisi che all’arrivo avrei
chiesto la
separazione, non ci parlavamo mai. Durante il viaggio lui soffriva
molto il
mare, stava sempre in cabina tranne qualche volta per il pranzo si
alzava. Si
avvicinava il Natale, a bordo ogni occasione era gran festa, nel cuore
avevo
una profonda tristezza pensando alla mia situazione, alla bambina,
all’avvenire. Nonostante tutto questo partecipai al cenone con suoni
balli
ecc.. lui non venne. L’ultimo dell’anno il mare era calmo Gino si alzò,
io non
mi sentivo di fingere ancora, rimasi in cabina sfogandomi in lacrime,
dopo un
po’ venne lui, si mise in ginocchio per chiedermi perdono, mi promise
che
presto sarebbe finito tutto, io ebbi fiducia delle sue parole e fu
perdonato.
Scendemmo a Barcellona .... Da
Barcellona andammo a visitare l’isola di Madera, un incanto da lontano
sembrava
un presepio in mezzo al mare, come mezzo di trasporto nel paese vi
erano delle
slitte trainate da buoi, comprai una piccola sedia a dondolo di paglia
per
Ivonne, tornammo a Barcellona di lì in ferrovia proseguimmo per Genova,
una
veduta bellissima, si costeggiava quasi sempre il mare.... Sempre nel 1924
quando stavamo a
Buenos Aires, venne per la prima volta il Principe ereditario Umberto
II, la
città si preparò in grandi festeggiamenti. Ciò che mi è rimasto
impresso erano
le luminarie; ogni finestra, portoni erano illuminati con un disegno;
anche le
fontane completavano il quadro, il Principe fu mandato in questo
viaggio per
distoglierlo di una cotta che aveva preso per una soubrette, Mimi
Aylmer, una
donna molto bella. Il Principe era
assai interessato a
Torino dove risiedeva. .... Aveva trasformato la città in
un salotto mondano, anche i torinesi erano assai emancipati in
confronto alle
altre regioni, più liberi ed aperti, all’opposto totale della Sicilia.
Viaggiando ho potuto studiare le usanze, il carattere di ogni paese,
ora quando
devo giudicare una persona inizio dalle radici, influisce molto
l’ambiente, le
abitudini, le circostanze, ci formiamo in conseguenza di tutto questo.
Il 26 giugno 1926
nacque Adele era bellissima e robusta
i capelli biondo oro, mentre la prima mora, mora. I miei finalmente si
fermarono e mi furono di aiuto ma non sopportavano mio marito, io
cercavo
sempre di coprirlo ma era evidente la vita che conduceva. Nel dicembre
del 1927
un’altra bimba venne alla luce[16],
troppi figli per me esile e con tanti problemi da affrontare, io per
guadagnare
qualche soldo lavoravo e stiravo biancheria per gli artisti e in più
aiutavo in
casa, mia mamma mi aveva assegnato una stanza e lì le mie figlie
passavano le
giornate. Cambiammo ancora alloggio andammo in
via S. Paolo 1, uguale
vita, aumenti di guai, lì il 14 luglio del 1929 nasce il maschio
Antonio, mia
madre giustamente non ammetteva tanti nipoti, ed erano sempre rimproveri.
A novembre del 1933 crebbe la famiglia; questa volta mi
fu detto che non la
volevano in casa, avrei dovuto darla a balia in un paese vicino. Non
dico i
miei pianti, mi venne in mente di metterci il nome di mia madre, e
forse per
questo piccolo particolare essa si commosse, e mi accontentò di tenerla
con
noi. In 10 anni cinque figli! Foto
di
Florica, Adele, Anna e Antonio Una volta Lucia
(aveva 5 o 6 anni e
si trovava ancora a Milano) non voleva uscire di casa se non aveva il
vestito
nuovo. Era domenica. Nonostante i tentativi di Emma per convincerla lei
rimaneva sempre di quella idea. Allora Gino prese un pezzo di stoffa e
le cucì
in un paio d’ore un vestito nuovo! Tutti i vestiti erano fatti in casa.
Non solo.
Ma anche le pantofole, ricavate da vecchi feltri e con suole di corda.
I
pedalini di lana erano ricavati da ritagli di vestiti di lana. E c’era
chi,
quando vedeva quei ragazzi (tra l’altro tutti vestiti alla stessa
maniera ed
Emma diceva perché aveva paura di perderne qualcuno quando uscivano di
casa, ma
forse per poter adoperare tutti le cose di tutti), diceva: “Ecco gli
sfollati”
Ma la miseria era tanta ed anche il freddo! Mio marito ebbe
la fortuna di andare
(1933) nella primaria sartoria teatrale (Caramba) aveva uno stipendio
fisso di
600 lire al mese, potevo (illegibile),
così affittammo
nella medesima via un alloggio di quattro stanze con calorifero;
pagavamo in
tutto 29 lire al mese, potevamo permetterci di mangiare una volta la
settimana
il pollo, piatto da signori a quei tempi andare in villeggiatura due
mesi (pagavamo
1500 lire la stagione volendo da giugno a settembre) di solito era
Brugliasco o
Brinate, io sempre con la mia prole lui veniva il sabato a trovarci. Caramba (Luigi
Sapelli, 1865-1936) fu
il maggiore costumista teatrale non solo della propria generazione, ma
probabilmente del secolo XX. Il costume venne con lui riletto in una
chiave
moderna e innovativa, che ne cambiò per sempre la concezione. Direttore
dell’allestimento scenico alla Scala a partire dal 1921, carica che
ricoprì
sino alla morte, realizzò costumi di fantasia liberamente ispirati alla
storia,
curati nel particolare, squisitamente studiati negli abbinamenti,
coraggiosi
nella scelta del colore, dei disegni, del taglio. Caramba fu un artista
prima
ancora che uno stilista, e se la sua fama si è nel corso del tempo
dilavata, i
suoi costumi, conservati numerosi nei depositi del Teatro alla Scala o
presso
l’Opera di Roma, dimostrano un talento tutto da riscoprire. Anche la giovane
Florica lavoro’ alla
sartoria di famiglia ed ebbe rapporti con Caramba. Il suo ruolo era
quello di
disegnare i vestiti, copiandoli da antichi libri di costumi a
disposizione
della sartoria. Florica ricorda di aver ricevuto, probabilmente dalla
ditta
Caramba, l’invito a lavorare a Parigi ma data la sua giovane età (16
anni o
anche meno) il papà Gino non le diede il permesso.
Da quando
lasciai Pietro non aveva
cessato di scrivere a mia cugina Velia per sapere notizie, a Natale a
Pasqua e
per S. Emma mi mandava gli auguri. Io mai gli risposi; incaricavo lei
di
contraccambiare gli auguri. Nel 1939 Gino ebbe una forte lite con il
capo del
personale (era una donna) sempre per via di gelosie tra lei un po’
anziana
(Ida) e una giovane lavorante, che si contendevano mio marito. Fu
mandato via e
lui venne a Roma in una buona sartoria Safas, come tagliatore. I motivi alla
base della decisione di
spostarsi a Roma sono anche altri, oltre a quello riportato nel
memoriale di
Emma. Gino confida alla sua famiglia di non sentirsi più sicuro a
Milano, anche
forse per il suo rifiuto di aderire al partito fascista[17].
Non volle mai farsi la
tessera del partito fascista e non mandò mai i suoi figli a fare i
balilla. In
più Roma sembrava offrire maggiori opportunità di lavoro grazie anche
alla
nascente industria cinematografica. Qui si chiude il
periodo milanese
della sartoria. Durante questo periodo sono state ritrovate diverse
documentazioni di costumi realizzati per opere rappresentate al teatro
La
Fenice di Venezia (1924-26), nei Paesi Bassi (1926 e 1928) e a Santiago
del
Cile (1930) e per
la Compagnia di
marionette Carlo Colla di Milano oggi conservati presso il Museo del
Teatro di
Figura (vari anni). Pochi mesi
rimase lì. La costumista (omissis)
gli consigliò di
mettersi a lavorare in proprio. Certamente anche con questa ci fu una
relazione. Il primo film che dette il via fu Pia dei Tolomei. Ebbe come
anticipo
10.000 lire e con questi prese un alloggio in Via Vetulonia 56[18];
comprò un tavolo, manichini tutto ciò che serviva per una sartoria e
venne a
Milano per comprare le stoffe. Dopo pochi mesi noi 6 lo raggiungemmo,
contribuii ad aiutarlo fin quando arrivò la II guerra mondiale. Due delle cinque
stanze
dell’appartamento di Via Vetulonia 56, furono adibite a laboratorio
della
sartoria. Come magazzini dei costumi man mano realizzati, furono
utilizzati dei
locali nella vicina Piazza Galeria 7, dove erano presenti anche degli
studi
cinematografici e una sala di doppiaggio. Ad aiutare gli Ardovino in
sartoria
c’era una certa Rosmina, dalle cui finestre di casa si vedevano i film
proiettati al cinema all’aperto. La storia del
cinema a Roma inizia
nel 1906, quando venne creato, nella zona appena fuori Porta San
Giovanni, un
vasto complesso di studi per la produzione cinematografica, la Cines.
Occupavano la zona di via Magna Grecia, fino a piazza Tuscolo. Nel maggio del 1930 gli
Studi vennero
ristrutturati ed inaugurati con una cerimonia ufficiale. Ma nel settembre
del 1935 un vasto
incendio distrusse tutto e il Governo decise di realizzare Cinecittà,
spostando
gli Studi nell’area sulla Tuscolana, verso Frascati. L’incendio non
parve molto
casuale, ad ogni modo il proprietario della Cines, il senatore Carlo
Roncoroni,
acquistò nel ’36 i terreni su via Tuscolana e nel ‘37 Mussolini
inaugurò i
nuovi studi di Cinecittà. Mentre
a via
Magna Grecia fu costruito un quartiere intensivo.
Nel 1943 a causa della guerra furono
licenziati i 1200 dipendenti della struttura, diventata statale.
L’attività di
produzione riprese nel ‘48 con un primo film americano, poi nel ‘51 fu
girato
Quo vadis e nel ‘59 Ben Hur. Il periodo d’oro per Cinecittà coincise
con la
Dolce Vita di via Veneto e terminò intorno al 1970.
In totale i film prodotti sono stati circa
3000. Sono molti gli
attori e le attrici
che frequentavano la sartoria Ardovino in quegli anni e tanti anche gli
aneddoti a loro legati. Gino si mostro’ sempre molto generoso
soprattutto con
gli artisti non ancora famosi a cui spesso prestava gratuitamente i
vestiti
della sartoria. Lui ed Emma erano molto amici con Amedeo Nazzari e sua
moglie
Irene Gemma. ... Elsa Merlini era
anche un’assidua
frequentatrice della sartoria ma, essendo molto esigente, al suo
arrivo, Gino
era solito nascondersi. La Merlini, insisteva girando per tutta la
sartoria al
grido di "dov'é Gino? dov'é Gino?". Gino conobbe
anche un giovane attore
che abitava nello stesso quartiere. Lo trovava spesso la mattina al
bar. L’attore
era solito dirgli "Ardovi', famme lavora', conosci tante persone, te
prego
". Gino gli offriva il caffè e gli rispondeva "Senti, lascia perdere,
non sei adatto". Quel giovane attore era Alberto Sordi. Il
lavoro non mancava, ma non era un buon amministratore, iniziarono i
primi guai,
cambiali non pagate, sequestri, ecc. ero io che dovevo correre per
riparare i
guai: mio marito non sapeva affrontare le situazioni[19].
Emma
contrattava con i clienti, in
quanto Gino a causa della sua bontà prendeva spesso grosse fregature. Ci
raggiunsero i miei genitori, la nostra famiglia aveva raggiunto il
numero di
nove persone, anche mia mamma aiutava in sartoria mio padre. Per
la
spesa cercavamo di andare avanti, ci saremmo riusciti se Gino avesse
avuto
altri sentimenti. Florica ed Adele s’impiegarono alla Confindustria:
l’ufficio
stava in Via del Plebiscito. Anna si occupava della casa, Antonio
studiava e
aveva la passione di giocare a pallone, s’iscrisse alla società Almas,
prometteva bene e per diverso tempo, in seguito giocò lodevolmente, fin
quando
la società lo cedette al Ministero di Grazia e Giustizia dove oltre
alle
partite gli assegnarono il posto al Ministero come guardia giurata,
posto che
tuttora occupa. Dare da mangiare ad una famiglia numerosa come la
nostra era un
problema, la tessera non bastava, dovevamo rifornirci alla borsa nera,
cioè
c’era chi vendeva di nascosto alimentari pagandoli naturalmente un
prezzo
elevato, io per avere un fiasco di latte andavo due volte alla
settimana a
Torre Gaia, conoscevamo una suora, si chiamava Erminia, noi le davamo i
costumi
per fare le recite nel suo istituto di orfanelli, in cambio oltre al
latte ci
procurava un po’ di verdura o altro che poteva, il denaro a volte non
serviva
bisognava barattare. Bombardamenti a Roma ce ne furono pochi però di
allarmi
giornalmente alle 10 del mattino e alle 1 1/2 . Mia figlia Lucia
frequentava le
elementari, aveva il terrore quando sentiva la sirena, era
il segnale,
si tranquillizzava solo quando io andavo a scuola da lei, mentre la
maggior
parte della popolazione si rifugiava nei ricoveri io uscivo in
direzione della
scuola non molto lontano da casa, ero fra i pochi che circolavano per
la
strada, non avevo paura, non mi sentivo di richiudermi in un
sotterraneo; c’era
chi piangeva, chi pregava ad alta voce. Si formava un clima peggiore di
quanto
era, ripeto preferivo stare all’aperto. Riguardo i generi alimentari
scarseggiavano sempre di più, dopo aver fatto ore di fila c’era il
rischio di
non comprare niente, il carbone, il gas, la luce tutto limitati, si
confezionavano
con carta straccia delle palle, venivano bagnate nell’acqua e poi
quando erano
asciutte servivano per l’inverno mettendole nelle stufe e
riscaldandoci; era
poco ma tutto serviva per sopravvivere. Per il nostro esercito ci fu
un’iniziativa: il figlioccio. Le
ragazze che avrebbero voluto indirizzare ad un militare, scrivevano ad
un
reparto al fronte e nel giorno che arrivava la corrispondenza se questi
non
avessero ricevuto posta, avrebbero consegnato loro la lettera destinata
ad un
ignoto. Quasi tutte le signorine avevano un figlioccio così iniziava
una
corrispondenza, anche le mie figlie scrissero, a Florica le capitò un
marinaio.
Quando venne in licenza s’incontrarono. Al ritorno mentre questo
viaggiava, la
nave affondò e perì miseramente. Adele ricevette una risposta di un
tenente
carrista (omissis
)
da una corrispondenza amichevole nacque l’amore e si fidanzarono. Per
Adele fu
il primo, credo grande amore, si videro per breve tempo, passarono due
anni, un
brutto giorno ricevette una lettera che per lui era tutto finito non
voleva
tenerla legata, non sapendo quando la guerra sarebbe terminata e se lui
sarebbe
tornato a casa. Ad Anna le scrisse un capitano, poteva essere suo padre
ma
proprio come una figlia le scriveva,
una mia
lavorante un semplice soldato. Questi si sposarono e
furono felici.
Molti matrimoni in tal modo furono fatti, in altri casi questa
iniziativa
serviva per dare un po’ di sollievo ai nostri soldati. .... Intanto
aveva speso molti soldi, per me e per questo dispiacere e altri ancora,
il mio
peso si fermava ai 38 chili, avrei voluto farla finita, ma il pensiero
dei
figli mi trattenne. Conoscemmo Adolfo fidanzato con una signorina che
abitava
in un appartamento accanto al nostro in Via Vetulonia. Dovevano
sposarsi.
Florica aveva preparato un lampadario fatto da lei, Adolfo partì per
Ottati per
procurarsi le carte necessarie al matrimonio, al ritorno venne a sapere
che la
fidanzata era uscita più volte con un altro, bastò questo per rompere
ogni
legame. Dopo un po’ chiese la mano di Florica a mio marito e dopo un
anno si
sposarono.
Quando si sposarono[20] andarono ad abitare in
camera mobiliata, poi
presero un piccolo alloggio al IV Miglio e piano piano si ingrandirono,
ed ora
stanno benino in piena armonia. Torno indietro con il tempo. Tanto
Adele che
Florica dovettero lasciare l’impiego perché la Confindustria si
trasferì a
Milano, avrebbero potuto partire anche loro, però noi non volevamo, non
sapevamo se, come e quando sarebbe finita la guerra così Florica studiò
e prese
la licenza di Storia dell’Arte mentre
Adele di assistente sanitaria e, praticando l’ospedale
S. Camillo conobbe un
dottore, si fidanzarono si chiamava Ilio passarono qualche anno poi per
mezzo
dei suoi genitori o altre ragioni misero punto, altro dramma per mia
figlia,
non è stata fortunata su tale argomento, Anna si fidanzò con uno
studente
ragioniere (Dario) ma né studiare né di lavorare aveva voglia. Lo
tenemmo in
sartoria per aiutare Gino poi fu assunto alla De Laurentiis addetto al
montaggio dei films. Andarono ad abitare all’EUR. Alla
sartoria, nel periodo romano, furono diversi i familiari Ardovino che
vi
lavoravano, anche se per brevi periodi: Florica, Anna, suo marito Dario
ed
Elide, sorella di Dario e moglie di Antonio. Senza dimenticare Virgilio
Ciarlo,
marito di Lucia, che rilevo’ la sartoria alla morte di Gino. Florica
ricorda che avesse, tra l’altro, il compito di scegliere collane e
accessori di
bigiotteria per i vestiti
e a tal fine
portava lei stessa i costumi appena realizzati in un negozio
specializzato di
Piazza S. Maria Maggiore per scegliere i "gioielli" da abbinare. ... Lucia
studiava dattilografia in un istituto, non ricordo il
nome,(l’Istituto Meschini.
In quel
periodo andava pazza per la rivista Grand Hotel. Non ne perdeva un
numero). Conobbe
l’attuale marito che frequentava pure lui tale
corso, non era facile trovare un lavoro e lo tenemmo in sartoria, era
molto
solitario e in seguito si sposarono. Antonio si fidanzò con la sorella
di Dario
il marito di Anna, ...Terminati gli episodi delle vicende delle mie
figlie,
rammento quanto mi accadde pochi giorni prima che arrivassero gli
alleati a
Roma. Come
già scritto era un
problema procurarsi generi alimentari. Noi avevamo la fortuna di fare
un film
intitolato “Se non son matti non li vogliamo” ambientato al 1920, con
vestiti
da poter utilizzare in mancanza di altro nel 1945. Con
questo materiale Gino andava ogni mese in un paese Monte S. Maria
(Rieti) a
barattare vestiario in cambio di olio, prosciutto tutto ciò che poteva
rimediare; aveva là conoscenti e per mezzo di un mio zio in venti
giorni prima
che gli alleati arrivassero a Roma lui fece il solito viaggio; già i
tedeschi
si ritiravano dal meridione e iniziavano a sequestrare ogni mezzo di
trasporto;
ognuno cercava di salvare quanto poteva: carri, cavalli, corriere, in
questo
viaggio con la corriera dove mio marito aveva preso posto, soldati
tedeschi
fermarono tale mezzo fecero scendere tutti, si impossessarono del
pullman,
dettero delle zappe agli uomini ordinando di scavare delle fosse, di solito quando
ciò avveniva si era
certi della fucilazione, ad un tratto venne una moto con un soldato,
certamente
diede ordine al collega di sospendere e andare via con lui. Fu la
salvezza dei
malcapitati. Arrivarono a Roma alla meglio, io non volli che si
muovesse più.
Con le donne i tedeschi erano più indulgenti, perciò il viaggio
successivo lo
feci io, sotto vari bombardamenti; arrivai al paese, rimediai qualcosa,
lo misi nello
zaino che avevo portato e mi affrettai a fare ritorno. Ma nessun mezzo
sarebbe
partito, rimasi bloccata per una settimana, decidemmo insieme ad altre
persone
di arrivare a Roma a piedi, 60 Km. ...Noi ugualmente con la speranza
della protezione di Dio camminavamo,
se ci avessero fermato c’era il rischio di restare in guardina fino al
mattino,
ma fummo fortunate e giungemmo a casa. I miei non sapevano notizie da
una
settimana, quando dal portone suonai e sentirono la mia voce, mi
vennero tutti
incontro, con il vociare si svegliarono anche i vicini e ci fecero gran
festa.
Due giorni dopo gli alleati entrarono a Roma, ... ...Mio padre nell’agosto del 1945 si
ammalò di
bronchite, aveva il diabete da diversi anni, un po' per il fisico
indebolito
dalle ristrettezze di cibo il 13 del medesimo mese ci lasciò per
sempre. Sono
stata tutto il giorno vicino a lui, la sera venne l’infermiera per
fargli una
iniezione. Mi assentai, ma non feci in tempo ad arrivare nel corridoio
che
questa mi chiama, mio padre che stava in coma dalla mattina ebbe un
momento di
lucidità, pronunciò più volte il mio nome nel varcare la soglia della
porta lo
vidi con gli occhi aperti e seduto nel letto, con il braccio destro mi
salutò e
cadde disteso senza vita. Il giorno successivo dopo i funerali ero
rimasta sola
in casa seduta su una poltrona della sala da pranzo, sento dei passi
all’ingresso di casa credevo fosse mio figlio Antonio, mi volto e vedo
un paio
di pantaloni neri che si muovevano come se fossero guidati da una
persona
sospesa lasciando sentire il rumore dei passi, gli andai incontro ma
non vidi
più niente. Mia mamma nel 1951 lo seguì, stava bene, all’improvviso di
notte si
alzò per andare al bagno (cosa non abituale) mi alzai per chiedere se
aveva
bisogno di qualcosa, mi rispose che era arrivata la sua ora, di
lasciarla
morire, il tempo di adagiarla nel suo letto e spirò. Credo che la
maggior parte
di noi quando non staremo tra i viventi capisca tale momento, ne ho
avuta la
certezza in più occasioni. Finita la guerra riprese
il lavoro per tutti, era un momento buono per le persone, bisognava
rimpiazzare
i caduti, costruire case, rivivere, per i sopravvissuti iniziare dal
principio.
Anche la nostra sartoria andava benino; gli anni passavano ma i brutti
ricordi
non si cancellavano, come tutt’ora passano nella mente. Nel
1954 mio marito iniziò a non stare bene, si supponeva una pleurite, ma
lui non
dava peso al male, fin quando dalle analisi risultò che aveva un tumore
ai
polmoni, allora pochi ritrovati validi esistevano per combattere il
male, si
aggravò giornalmente nel momento in cui avevamo tanto lavoro. Io con il
personale riuscivo ad andare avanti. La notte non dormivo per badare a
lui, poi
avevo paura, mi aveva sempre detto che se sapeva di morire prima lui,
mi
avrebbe strozzata, dormiva su una poltrona non aveva la forza di stare
in
piedi, ma per due volte era riuscito ad avvicinarsi al mio letto,
svegliandomi
all’improvviso senza farmi accorgere del mio timore lo accompagnavo a
sedere. A
volte per fare pochi passi voleva appoggiarsi a me mettendomi le mani
sul
collo, forse non aveva cattive idee, ma io non stavo tranquilla, per
tre mesi
stette molto male, verso i primi di ottobre del 1955, non riconosceva nessuno, non parlava
più. Il 5 dello stesso mese
mi chiamò, voleva fare testamento a mio favore. Mi disse che era meglio
seguitassi io il suo lavoro. Con tre testimoni e sotto sua dettatura
compilai
il suo desiderio, però per varie ragioni non mi fu possibile attuarli.
... L’unico regalo di una certa importanza che Gino “offrì” a
Emma
fu un braccialetto (sul quale molto si dirà con l’apertura del
testamento) del
peso di 40 gr. d’oro. Peccato che il braccialetto fosse destinato ad
una delle
tante fiamme di nonno: solo che Emma lo trovò e fu giocoforza per Gino
di
donargliela! Del periodo
romano della sartoria
sono state, ad oggi, ritrovate diverse documentazioni di costumi
realizzati sia
per il cinema che per il teatro. Per il cinema, in quattro film: Pia de’ Tolomei (1941), Se non son matti non li vogliamo (1941), L’invasore (1943) e Lucia di Lammermoor (1946). Per il teatro,
in spettacoli al
Teatro Eliseo di Roma (1947), al Teatro
Regio di Parma (dal 1946 al 1954), al Teatro Municipale di San Paolo
del
Brasile (1950-1951), al Teatro Statale di Stoccarda (1953), Sadler’s
Wells
Theater di Londra (1954), al Teatro Municipale di Reggio Emilia (1954)
e per
tournée di compagine di rivista (1947-1948). Anche
dopo la morte di Gino e il passaggio dell’attività al genero Virgilio,
risultano documenti di costumi Ardovino utilizzati in varie
rappresentazioni al
Teatro Bonci di Cesena (1956), al
Gaiety Theatre di
Dublino (1956 e 1963) e al Teatro Stabile di Trieste
(1957).
...
Adriana
s’impiegò come
commessa da Loreti e venne il giorno che incontrò un bravo ragazzo, si
fidanzarono e in breve tempo si sposarono. .... Ciò che ho
scritto è ... per mio nipote Luigi se non
fosse stato per lui avrei tenuto per me in
seguito, ................ A mio marito ho voluto
bene, non
ho mai mancato ai doveri coniugali. Come madre ho fatto il più
possibile per
insegnare loro una retta via. Ho terminato le mie memorie, ora con
serenità
aspetto il giudizio di Dio. [1] Non è mai esistito un Rettore di nome Pellegrini. Forse si trattava di un marito di una delle sorelle [2] Pasquale Ardovino [3] In verità Emma nacque il 23, ma con la speranza di ottenere un premio per la nascita concomitante con la Principessa Mafalda di Savoia, fu indicato il 24. [4] 28 dicembre 1908 [5] O forse 6 anni [6] Potrebbe trattarsi del piroscafo "Città di Torino" che affondo’ nel novembre 1905. Ci furono 45 morti su 600 imbarcati. [7] Oggi c’è l’Hotel 87. [8] 8 gennaio 1913 [9] Forse ottobre [10] Ivonne [11] Ottobre 1917 [12] Circa 11 euro di oggi (2021) [13] Si trattava di una ballerina della compagnia che flirtava con Gino [14] In questo albergo rimasero 1 settimana. Qui i letti scricchiolavano e Emma aveva preso questa scusa per non stare vicino a Gino. Una sera lui si scocciò, prese i materassi e li mise per terra. Così non c’erano più scuse. [15] Si trattava di
Florica
Cristoforeanu (Mezzo-Soprano) (Rimnicul Sarat 1887 - Rio de Janeiro,
Brazil
1960)
[16] Anna [17] In verità Gino non poteva considerarsi un vero antifascista ma piuttosto un afascista. Aveva trovato un ottimo escamotage per lavorare: chiedeva prima al suo interlocutore a che partito appartenesse e poi diceva "anche io”. [18] In affitto per 600 lire al mese corrispondenti a circa 500 euro di oggi mentre a Milano pagavano 29 lire, riscaldamento compreso. [19] Il Bollettino dei protesti cambiari, dei fallimenti e del movimento delle ditte della Provincia di Roma del 1946 indica una cifra di 40.000 lire a debito di Gino Ardovino, corrispondenti a oltre 1000 euro di oggi (2021). [20] 1948 |